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Il libello di Don Giovanni Battista Segni. Parte I

Risale al 1591 il trattato “Discorso sopra la carestia, e fame” scritto dal canonico lateranense Don Giovanni Battista Segni e dedicato a Monsignor Giovanni Fontana, vescovo di Ferrara, che individua alcune cause della carestia che imperversa negli Stati dell’Italia dell’epoca, proponendo anche dei rimedi per affrontare il problema della fame.

Il periodo in cui il canonico scrive va inquadrato in una fase di sconvolgimento climatico, comprovata da climatologi e storici che durò circa 300 anni (dalla metà del ‘550 alla metà dell’800) che prende il nome di “piccola era glaciale”. In questa nuova fase climatica tutta l’Europa fu interessata da un abbassamento delle medie temperature, con estati molto brevi e piovose, non di rado precipitazioni nevose anche nella tarda primavera e inverni estremamente lunghi. Il documento conferma che questi cambiamenti furono piuttosto graduali e caratterizzati da un’alternanza di periodi addirittura siccitosi ad altri estremamente piovosi. Gli effetti di questi sconvolgimenti furono una vera e propria calamità che da molti venne ovviamente interpretata come castigo divino. E’ interessante notare, tuttavia, che il canonico tenti un’interpretazione più vicina ad un approccio moderno.
Si comincia con l’effetto della carestia: “la fame, tra tutte le cose che affliggono l’uomo, è la principale, perché dalla natura è ordinato il corpo umano in cui del continuo l’umido radicale et il calore naturale contrastano, e se il cibo non si mettesse di mezo l’uno supererebbe l’altro  e torrebbono la vita all’uomo, e per essere il cibo nutrimento al corpo tiene questi doi contrari ne’ suoi luoghi et uno non fa violenza all’altro. Geremia profetta, per dichiarare la gravezza della fame, la chiama nella sua orazione di condolimento «faccia di tempesta»”.
L’autore del trattato prova ad individuare alcune delle cause della carestia che affamò la popolazione. Tra le possibili cause individua gli influssi celesti di Saturno e di Marte, in particolare.
Tra la cause ambientali quella che viene definita “l’inclemenzia dell’aria che non dà le pioggie e i sereni al tempo suo, anzi a guisa di cruda matrigna quando dovria esser secco innonda la terra e quando dovria concederne la pioggia  la lascia arida e senza umore”. A queste ragioni si aggiungano “certi venti affricani, levate da quelle paludi nuvole grossissime di locuste o cavallette che vogliamo dire, cacciarle per aria in questa regione et in quell’altra, e guai dove si posano che mangiano le radici di tutte l’erbe, delle piante e fin delli arbori”. Ovviamente, al termine di questa lista, il canonico non può non annoverare una “giusta” punizione divina motivandola “per divina volontà immediatamente ne assaglie per lo più la fame per vendicarsi dei nostri misfatti e peccati”.
Insomma, pare proprio che il nostro autore, per non cadere in errore, abbia deciso di citare tutto quanto gli sia venuto in mente per spiegare la tragedia che afflisse la popolazione sul finire del ‘550…


Immagine: Vincent Van Gogh, I mangiatori di patate, 1885, olio su tela, Museo Van Gogh, Amsterdam


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